Lo Studio legale degli avvocati esperti in diritto militare Maiella e Carbutti affronta un'importante tematica legale: il reato di acquisto o ritenzione di effetti militari previsto dall'articolo 166 del Codice penale militare di Pace. In questo articolo approfondiremo anche l'istituto del ritiro cautelativo e le possibili conseguenze per gli operatori di polizia in caso di violazione delle procedure di ritiro cautelativo.
In particolare, cosa prevede il reato di acquisto o ritenzione di effetti militari? Quando si configura? Quali provvedimenti può adottare l'Amministrazione al fine di limitare l'utilizzo degli effetti militari? Quando gli operatori incaricati del ritiro cautelativo possono commettere il reato di abuso di ufficio (art. 323 c.p.)?
Il caso
Uno dei casi recentemente affrontati dagli avvocati Maiella e Carbutti riguardava un militare che, a seguito di un confronto concernente la modalità di gestione di un'operazione di servizio, poneva in essere taluni atteggiamenti che venivano ritenuti potenzialmente lesivi della pubblica sicurezza: pertanto, lo stesso veniva sottoposto al ritiro cautelativo delle armi di servizio e di quelle regolarmente detenute presso la sua abitazione di residenza ai sensi dell'art. 39 TULPS. Nel corso del ritiro cautelativo venivano rinvenute armi regolarmente detenute e talune munizioni da guerra: per tale ultimo profilo iniziava a suo carico un procedimento penale per acquisto o ritenzione di effetti militari (previsto e punito dall’art. 166 del codice penale militare di pace) presso il competente Tribunale militare.
La normativa e la giurisprudenza
L'articolo 39 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza prevede le facoltà in capo al Prefetto di “vietare la detenzione delle armi, munizioni e materie esplodenti denunciate [...] alle persone ritenute capaci di abusarne. Nei casi d’urgenza gli ufficiali e gli agenti di pubblica sicurezza provvedono all’immediato ritiro cautelare dei materiali di cui al primo comma, dandone immediata comunicazione al Prefetto. Quando sussistono le condizioni di cui al primo comma, con il provvedimento di divieto il prefetto assegna all’interessato un termine di 150 giorni per l’eventuale cessione a terzi dei materiali di cui al medesimo comma. Nello stesso termine l’interessato comunica al prefetto l’avvenuta cessione. Il provvedimento di divieto dispone, in caso di mancata cessione, la confisca dei materiali ai sensi dell’articolo 6, quinto comma, della legge 22 maggio 1975, n. 152”.
Come più volte chiarito dalla Giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. III, n. 2162/2015 e n. 5398/2014) la valutazione al riguardo dell'Autorità di pubblica sicurezza persegue lo scopo di prevenire, per quanto possibile, l'abuso di armi da parte di soggetti ritenuti non pienamente affidabili, tanto che la valutazione ostativa è giustificabile anche in situazioni che non hanno dato luogo a condanne penali o misure di pubblica sicurezza, ma a situazioni genericamente non ascrivibili a buona condotta.
Inoltre, la facoltà di vietare la detenzione delle armi nei confronti delle persone capaci di abusarne è caratterizzata da ampia discrezionalità e non persegue finalità sanzionatorie e punitive, bensì ragioni di prevenzione; pertanto non è necessario un oggettivo ed accertato abuso delle armi, ma è sufficiente che il soggetto non offra un completo affidamento in ordine al loro corretto e avveduto uso (T.A.R Molise, n. 64/2021).
Qualora un soggetto venga trovato nel possesso di materiale riconducibile alle munizioni di guerra, oltre al ritiro cautelativo, potrebbe iniziare a suo carico un procedimento penale per acquisto o ritenzione di effetti militari.
Gli articoli 164, 165 e 166 del codice penale militare di pace
In tal senso l'articolo 166 del Codice Penale Militare di Pace punisce chiunque acquista o per qualsiasi titolo ritiene oggetti di vestiario, equipaggiamento o armamento militare o altre cose destinate a uso militare, senza che siano muniti del marchio o del segno di rifiuto, o comunque senza che egli possa dimostrare che tali oggetti abbiano legittimamente cessato di appartenere al servizio militare.
Il bene giuridico tutelato dall'art. 166 c.p.m.p. deve essere identificato non nel patrimonio, bensì “nell'interesse generale al regolare svolgimento del servizio militare, inteso come complesso di attività preordinate all'assolvimento del compito fondamentale della difesa del territorio nazionale” (Sez. 1, 3 aprile 1995, n. 5208; Sez. 1, 16 marzo 2000, n. 5982).
La norma punisce la condotta di ritenzione di munizionamento militare non munito del marchio di rifiuto e/o palesemente dismesso; ai fini della configurabilità del reato è sufficiente il dolo generico, ossia la consapevolezza, da parte del militare, che il munizionamento non ha legittimamente cessato di appartenere al servizio militare.
L'art. 166 c.p.m.p. richiama due norme precedenti, in particolare l'art. 164 c.p.m.p. e l'art. 165 c.p.m.p. che si distinguono per la condotta sanzionata e per la sanzione prevista: tale distinzione assume anche una portata pratica per quanto concerne la richiesta di procedimento ai sensi dell’art. 260 c.p.m.p..
L'art. 164 c.p.m.p., riguardante la distruzione o alienazione di oggetti d'armamento militare, punisce con la reclusione militare fino a 4 anni il militare, che distrae, distrugge, sopprime, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili, o in qualsiasi modo aliena le armi, gli oggetti di armamento, le munizioni di guerra, materiali o altri oggetti, che, a norma dei regolamenti, gli sono forniti dall'amministrazione militare come costituenti il suo armamento militare.
L'art. 165 c.p.m.p., invece, disciplina il reato meno grave di distruzione o alienazione di effetti di vestiario o equipaggiamento militare, punendo con la reclusione militare fino a 6 mesi il militare, che distrae, distrugge, sopprime, disperde, rende inservibili o in qualsiasi modo aliena oggetti, che, a norma dei regolamenti, gli sono forniti dall'amministrazione militare come costituenti il suo vestiario o equipaggiamento militare.
Per quest’ultima fattispecie è importante ricordare che è punibile penalmente solo in presenza di richiesta del Comandante di Corpo ai sensi dell’art. 260 c.p.m.p. In particolare, il secondo comma della norma in parola sancisce che “I reati, per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione militare non superiore nel massimo a sei mesi [...] sono puniti a richiesta del comandante del corpo o di altro ente superiore, da cui dipende il militare colpevole, o, se più sono i colpevoli e appartengono a corpi diversi o a forze armate diverse, dal comandante del corpo dal quale dipende il militare più elevato in grado, o, a parità di grado, il superiore in comando o il più anziano”. A tal fine, il quarto comma fissa in termine di procedibilità in quanto “la richiesta non può essere più proposta, decorso un mese dal giorno in cui l'Autorità ha avuto notizia del fatto che costituisce il reato”.
Connessione con il reato di abuso d’ufficio
Qualora l'Autorità procedente esegua il ritiro cautelativo delle armi legalmente detenute e delle munizioni di guerra al di fuori dei casi e dei limiti consentiti dalla legge, è possibile che la stessa incorra nella commissione del reato di abuso di ufficio di cui all'art. 323 Codice Penale che punisce con la reclusione da uno a quattro anni il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto.
L'abuso di ufficio ha natura plurioffensiva, in quanto “è idoneo a ledere, oltre all'interesse pubblico al buon andamento e alla trasparenza della pubblica amministrazione e all'imparzialità dei pubblici funzionari, anche l'interesse del privato a non essere turbato nei propri diritti costituzionalmente garantiti e a non essere danneggiato dal comportamento illegittimo e ingiusto del pubblico ufficiale” (ex multis Cassazione, Sez. VI, 19.1.2016, n. 5746).
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